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È morta Whitney Houston - PAU Madrid 2015

È  morta  nel  giorno  dei  Grammy,  alla  vigilia  degli  Oscar  della  Musica:  Whitney  Houston,  48  anni,  una pioggia di statuette, 170 milioni di dischi venduti e una vita da diva che da anni era diventata un inferno, non  ce  l'ha  fatta  a  sopravvivere  alla  sua  fama  in  declino.  La  Regina  del  Popla  Voce,  come era  stata nominata. Ma non solo. Anche il Corpo della Musica, lo splendido corpo di "The Bodyguard", il film che ne  ha  incastonato  la  carriera  prima  che  la  depressione  e  la  droga strangolassero  la  sua  voce  e  la  sua anima.
Whitney  si  trovava  a  Los  Angeles per  partecipare  a  un  evento  collegato  alla  consegna  dei  Grammy.  Il corpo  senza  vita  è  stato  trovato  nella  sua  stanza  d'albergo  al  quarto  piano  del  Beverly  Hilton  hotel,  a Beverly Hills.
Leggendari i suoi successi, da "How Will I Know" a "I Will Always Love You", così come le battaglie con l'alcol e gli stupefacenti. E nel mito dello showbusiness è già entrato il suo matrimonio con Bobby Brown, anche quello tempestoso come la sua carriera.
"Withney, riposa in pace, non ci sarà mai più un'altra come te": così, sulla sua pagina Facebook, Lenny Kravitz ha aperto i necrologi vip.

Gli anni ‘70

Festival di Sanremo
Gli anni Settanta sono stati anni di trasformazione e svecchiamento anche nel campo della musica, dell'intrattenimento radiofonico e televisivo, della satira politica e di costume. Per capire come cambiarono, in quel decennio, i gusti del pubblico (e dei giovani in particolare), basta guardare i dati del Festival della Canzone Italiana o di Sanremo, la manifestazione canora più famosa, e contestata, d'Italia.
Per tutti gli anni Sessanta le tre serate del festival sono andate in onda in diretta sia alla radio che in televisione: partecipavano i big della canzone italiana e si vendevano tantissimi dischi a 45 giri (circa 6 milioni di copie, tra 45 e 33 giri, solo nel 1964). Ma tra il 1973 e il 1980 la televisione trasmette in diretta solo la serata finale: i cantanti importanti snobbano la manifestazione e le vendite dei 45 giri calano a picco (nel 1975, anno 'nero' del festival, vendute appena 45.000 copie).
Solo negli anni Ottanta si ricomincia con la diretta televisiva dell'intera manifestazione, in concomitanza con quello che è stato chiamato "il riflusso". Oggi le serate del festival sono addirittura cinque, e tutte trasmesse in diretta.
Gli "anni bui" di Sanremo riflettono la crisi di cambiamento che in quel decennio investe ogni aspetto della società italiana.
I giovani impazziscono per una trasmissione radiofonica che si chiama Alto Gradimento, andata in onda tra il 1970 e il 1976. Un programma bizzarro, addirittura demenziale, assolutamente diverso da tutto quanto proponeva allora la radio: brani musicali non convenzionali si alternavano alle gag comiche di una galleria di personaggi surreali, il tutto coordinato dai due "presentatori" Renzo Arbore e Gianni Boncompagni e con un ritmo serrato. Molte battute, ripetute a mo' di tormentone, sono entrate nel linguaggio comune e chi allora aveva vent'anni ancora se le ricorda.
Renzo Arbore è anche l'autore di una trasmissione televisiva parimenti rivoluzionaria, L'altra Domenica (1976-1979), trasmessa la domenica pomeriggio sul "secondo canale" della R.A.I. Inventata per soddisfare un pubblico che non seguiva volentieri il programma che andava in onda già da anni sul "primo canale" (Domenica In), decisamente più tradizionale, aveva tra i suoi protagonisti un giovanissimo Roberto Benigni, che interpretava un surreale critico cinematografico (parlava di film che non aveva visto). La sigla finale, poi, era cantata dalle Sorelle Bandiera, tre vigorosi giovanotti travestiti da donna. Il successo era stato travolgente e gli ascolti altissimi, tanto da preoccupare gli autori del programma concorrente, Domenica In.
Insomma, all'epoca si sperimentava, altro che i noiosi e prevedibili format che ci vengono propinati oggi.
I giovani che si divertivano con queste trasmissioni difficilmente seguivano Sanremo. Ascoltavano la musica anglosassone, ma anche quella dei numerosi gruppi nati in Italia proprio in quegli anni: è italiano uno dei filoni più originali di quello che è chiamato Progressive Rock, tanto che alcuni di questi gruppi ottennero successo anche all'estero (ad esempio, la Premiata Forneria Marconi).
E poi i giovani ascoltavano, e suonavano alla chitarra, i brani dei cantautori. Ce n'era per tutti i gusti: canzoni "impegnate" che parlavano di problemi sociali e di politica, brani sperimentali nel testo come nella musica o di carattere più decisamente poetico. Ma anche la 'musica leggera' poteva essere di altissimo livello, come testimonia la produzione di Lucio Battisti.
La musica, come le trasmissioni di cui si è parlato, avevano in comune la voglia di cambiare, di sperimentare. Ma anche l'irriverenza. E, a proposito di irriverenza, non possiamo non citare un giornale satirico nato alla fine degli anni Settanta, Il Male (1977-1982), un giornale che ignorava l'idea del "politicamente corretto". Tanto è vero che le vignette satiriche e gli articoli, feroci e sarcastici, causarono un gran numero di denunce (molte per vilipendio della religione) e parecchi sequestri.
Geniale, in particolare, l'idea di falsificare la prima pagina dei quotidiani più famosi, inventandosi scoop demenziali: famosissima la pseudo-prima pagina del Paese Sera con la notizia dell'arresto dell'attore Ugo Tognazzi perché capo delle Brigate Rosse.
Attualmente non esiste niente di paragonabile, la satira politica è guardata con sospetto e la Chiesa è intoccabile.
Certo, viene da dire... si stava meglio quando si stava peggio.
Giulia Grassi (scudit.net)

La famiglia italiana

La famiglia italiana
La struttura della famiglia degli ultimi trenta anni è molto diversa dal modello tradizionale della famiglia italiana. La famiglia moderna è composta dai genitori ed uno o due figli (raramente, almeno al Centro- e Nord-Italia, più di due), ed entrambi i genitori generalmente lavorano fuori casa.
La famiglia tradizionale, agricola e patriarcale, era invece molto numerosa e riuniva genitori, figli e nipoti sotto uno stesso tetto: era formata, insomma, da quelle che oggi sarebbero considerate più famiglie differenti. Gli uomini lavoravano, mentre le donne si occupavano della casa e dell'educazione dei figli.
La trasformazione della famiglia, causata dalla conversione dell'Italia da un paese prevalentemente agricolo ad uno industriale, non ha, tuttavia, ancora cancellato ogni traccia del vecchio modello. Ci sono ancora abitudini e modi di pensare che legano la famiglia del passato a quella del presente.
In primo luogo, a livello della vita quotidiana, le famiglie italiane si riuniscono sempre, per almeno un pasto al giorno, intorno allo stesso tavolo. La cena è un momento di dialogo tra genitori e figli, uno dei pochi nei quali tutti i membri della famiglia hanno la possibilità di stare insieme.
In secondo luogo, pur essendo una famiglia nucleare, non è raro che uno dei nonni paterni o materni, specialmente se è rimasto vedovo o vedova, viva in casa con uno dei figli. Anche se non in casa, in ogni modo, i nonni vivono generalmente nella stessa città di uno dei figli e sono oggetto delle cure dei familiari. Accade di rado, solo in caso di impossibilità pratica a fornir loro assistenza, che i figli chiedano il ricovero dei genitori anziani in istituti (le cosiddette "Case di riposo").
Un ulteriore elemento che lega ancora la famiglia italiana di oggi a quella del passato è lo stretto legame affettivo che rimane tra i suoi membri, anche quando questi hanno formato nuovi nuclei familiari. Gli italiani sono, per esempio, sempre pronti ad aiutare i loro parenti, specie nel campo del lavoro o nelle difficoltà economiche.
E anche se vivono lontano i membri di uno stesso gruppo familiare cercano sempre di ritrovarsi tutti insieme in occasione delle feste religiose (Natale e Pasqua) o di quelle familiari (battesimi, prime comunioni, matrimoni).
Se confrontiamo, infine, la famiglia italiana con quella americana, emerge un'ultima caratteristica del modello italiano. E' molto comune che i figli vivano con i propri genitori molto più a lungo che negli altri paesi occidentali, spesso fino ai trenta/trentacinque anni. Prima di sposarsi e di iniziare una nuova famiglia, infatti, è normale, per un giovane italiano, continuare a vivere nella stessa casa dei genitori e dipendere economicamente da loro.

Il libro, l'e-book e el corpo a corpo del lettore

Il libro, l'e-book e el corpo a corpo del lettore
Perché è meglio non sottovalutare il rapporto fisico con i libri e perché, anche se dobbiamo abituarci agli e-book, è meglio pensare di farlo con molta tolleranza per chi invece fatica a farlo, e soprattutto senza supponenza d’avanguardisti; e, d’altra parte, chi è diffidente davanti al libro digitale dovrebbe almeno mettere da parte un po’ di snobismo e provare.
In una delle ultime riunioni del gruppo di lettura di Cologno Monzese mi sono presentato per la prima volta con il libro letto che stava dentro il Kindle invece che in volume. Quell’incontro mi ha lasciato con la sgradevole sensazione che in questi mesi avessi sottovalutato le privazioni fisiche che la lettura dell’e-book infligge.
Il libro in lettura al Gdl era: Giorgio Cosmacini, Compassione (Il Mulino); l’ho letto in e-book perché era venduto a un buon prezzo rispetto alla copia stampata e soprattutto mi serviva in fretta, visto che avevo deciso tardi di partecipare alla lettura condivisa dal Gdl: così una sera, pochi giorni prima della riunione, in pochi secondi mi sono trovato con il libro fra le mani (espressione che in questo caso era solo una metafora visto che il file è finito, invisibile, nella memoria del Kindle).
Qui però, per una volta, non importano le impressioni di lettura condivise nel gruppo, ma l’impressione collaterale della lettura dell’e-book. O meglio, l’impressione suscitata dall’essere lì con un Kindle e discutere con altri lettori di un libro che io ho letto sul Kindle e gli altri in volume.
Uso il Kindle – e un Kobo – da più di un anno, con una certa soddisfazione anche se con poco entusiasmo. Diciamo con profitto funzionale: è comodo, leggero, spesso conveniente (perché gli e-book a volte hanno dei prezzi “buoni”, diciamo meno della metà di quello del libro stampato, per il mio giudizio). Oltre al Kindle continuo a leggere libri stampati; diciamo che libri ed e-book convivono sul mio comodino e si dividono il mio tempo di lettura più o meno con un 70% (libri) – 30% (e-book).
Parlando del Kindle ho quasi sempre messo tra parentesi la questione “fisica”. Mi sembrava imprecisa e vaga come critica, mi pareva un po’ nostalgica, immotivatamente nostalgica, proprio perché vaga. Pensavo ad altro. Poi però quella riunione del Gdl mi ha portato sotto il naso, perfettamente a fuoco, proprio la questione fisica dell’uso dell’e-book: il diverso corpo a corpo con il libro, anzi, forse, l’impossibile corpo a corpo con il libro, perché l’e-book ci impedisce (o forse dovrei dire “ostacola”) il corpo a corpo. Insomma: i post-it colorati alle pagine giudicate decisive, le note a matita a margine, in corrispondenza dei post-it (sì certo nell’e-book si prendono le “note”, ma sono ben altro); il balzo da un una pagina all’altra, grazie al ricordo visivo di dove stava messo un certo paragrafo, solo per citare qualche sensazione che l’e-book nega. E che poi mi ha portato a ricordare altri mancati corpo a corpo, impediti dall’e-book: per esempio il senso di accumulo delle pagine lette, e quello di attesa per il restante volume di pagine da leggere, o ancora la possibilità di piegare le pagine agli angoli, o di sfogliare le pagine vedendone più di una alla volta. Perché l’e-book ha sempre solo una pagina, lo schermo; si scorre ma è sempre “la stessa”.

La piuma dell'angelo

La piuma dell'angelo
Nell’orfanotrofio di San Germano d’Auxerre erano accuditi tanti trovatelli e tra questi c’era Luc un bambino davvero speciale, perché era molto buono, ma buono davvero. Se aveva qualcosa, si apprestava a dividerlo con gli altri e se poteva aiutare, non se lo faceva chiedere. Era generoso e d’animo semplice. Il piccolo, era stato lasciato sui gradini della struttura che aveva solo pochi mesi e da allora, erano già trascorsi otto anni. Stranamente, non aveva trovato nessuno che lo adottasse, sebbene fosse molto grazioso e educato. Per la sua giovane età, il bambino aveva una saggezza che lasciava tutti sempre a bocca aperta ed era per questo però, lasciato in disparte dagli altri. Troppo diverso dai suoi simili, tanto che trascorreva gran parte del suo tempo da solo. Un giorno nell’approssimarsi del Natale, Suor Josephine ha detto: “Bambini, prendete carta e penna e scrivete la letterina, mettendo che cosa volete ricevere come regalo”. Molti hanno cominciato a elencare giocattoli bellissimi, altri invece hanno chiesto di poter finalmente avere una famiglia. Invece il piccolo Luc nella sua ha scritto: “Fammi diventare un angelo, così posso aiutare tutti questi bambini, ed esaudire i loro desideri”. Le suore leggendola, sono rimaste sconcertate, ma pensando che ciò dipendesse dalla bontà d’animo del piccolo, non hanno dato peso alla cosa. Gli anni sono passati e ad ogni Natale, Luc scriveva sempre la stessa frase.

Più Bentley per tutti

Più Bentley per tutti
Inizia l'era del capitalismo etico. Basta con l'ostentazione volgare del lusso. Il nuovo verbo è la sobrietà. Via libera alle fuoriserie rivestite di cartone per sembrare furgoni da idraulico. È il momento del capitalismo etico. Primo effetto: all'ultimo vertice dei paesi ricchi, i primi ministri hanno consumato la cena di lavoro invitando i camerieri a sedersi a tavola con loro: Un duro colpo all'idea di privilegio di classe, che ha avuto il suo momento culminante con la gara di rutti e il pokerino finale tra le stoviglie unte. Per la cronaca, hanno vinto i primi ministri e i camerieri hanno dovuto pagare sull'unghia settemila euro. Questi gli altri provvedimenti varati, di ordine tecnico ma anche politico-culturale. 

Banche 

Da tempio della speculazione smodata, devono diventare la sede ideale del risparmio virtuoso. Basta con le filiali imponenti e lussuose, d'ora in poi gli sportelli saranno ispirati alle vecchie botteghe artigiane: una modesta vetrinetta sulla strada, un solo impiegato molto alla mano e un grosso salvadanaio nel quale i clienti infileranno le monete potendone udire il tintinnio. Gli esperti concordano: l'immaterialità della valuta è stata la causa principale della spirale debitoria, urge restituire al denaro la sua perduta sostanza. In progetto la moneta da cento euro, grande come un frisbee, e quella da mille euro, una ruota di pietra con un buco al centro per inserire i semiassi e trasportarla più agevolmente. A Natale le enormi strenne fotografiche in regalo ai clienti, in genere dedicate ai pioppeti della Lomellina, verranno sostituite da un foglio ciclostilato con una sola fotografia, sempre di un pioppo della Lomellina. Bancomat Per favorire il risparmio ed evitare prelievi inutili, i bancomat verranno ripensati. Non basta più il Pin: si deve anche abbassare una leva posta al fianco dello schermo, come nelle slot machine, e solo se verranno tre prugne o tre ciliegie si potrà usufruire del servizio. Altrimenti si perderà per intero la somma richiesta, che servirà a ripianare il buco finanziario della banca.

Licenziamenti 

Il licenziamento etico prevede una nuova prassi: la lettera che lo comunica dovrà essere rigata dalle lacrime del capo del personale, che renderanno illeggibile la cifra della buonuscita impedendo al licenziato di avanzare pretese. Il padrone allegherà alla lettera anche una sua fotografia particolarmente brutta, che dia al licenziato l'idea di profondo disagio esistenziale che il suo datore di lavoro sta vivendo.

Lusso

Con l'avvento del capitalismo etico finisce l'ostentazione volgare del lusso. Parola d'ordine: sobrietà. Già pronte sagome di cartone da applicare sulle Bentley e le Maserati per farle sembrare furgoni da idraulico. Carte da parati trompe l'oeil, con ragnatele o finte macchie d'umido, diventeranno il segno di distinzione nelle case dei ricchi etici. Molto ricercati anche i sopra-cravatta cinesi, con orribili motivi a losanghe, per avvolgere le cravatte di Marinella. Di moda le nuove lampade a raggi Uva retroversi, che assorbono l'abbronzatura appena ottenuta sulle nevi svizzere conferendo al volto un pallore da muratore moldavo. I ristoranti più costosi già servono le ricercatissime ostriche 'en travesti', avvolte in foglie di lattuga oppure VOTO nascoste nel nodo del tovagliolo. Le carte di credito non si chiameranno più Golden e Platinum ma Truciolar e Ruggine. 

Profitto 

Il profitto rimane il valore-base, ma verrà reso meno impopolare grazie all'introduzione del profitto etico: il capitano d'industria o il finanziere che ha appena incassato cento milioni di euro affamando gli operai o rovinando i risparmiatori dovrà mostrarsi molto dispiaciuto, scuotere il capo e allargare le braccia senza darsi pace. Una apposita commissione valuterà il grado di dispiacere, conferendo un ulteriore premio governativo in denaro a chi risulterà più avvilito.
© Michele Serra, www.lespresso.it (Febbraio 2009)

Ora i compiti sono più difficili

Ora i compiti sono più difficili

Sorprendenti risultati di un sondaggio inglese

Sette genitori inglesi su dieci non sanno fare i compiti dei loro figli che frequentano le scuole medie. Lo hanno confessato, con un po’ di vergogna, rispondendo a un sondaggio del Dipartimento governativo anglosassone per L’Educazione, alla vigilia dell’inizio del nuovo anno scolastico. “Quando i nostri ragazzi tornano a casa con un compito d’inglese o di matematica non sappiamo come aiutarli” hanno ammesso mestamente. “Così siamo costretti a rinunciare a dare loro una mano e a lasciare che se la cavino da soli, con il rischio però che il giorno dopo prendano un brutto voto”. Ma non è per ignoranza che le mamme e i papà britannici ammettono la loro sconfitta, anche perchè molto spesso si tratta di genitori diplomati o addirittura laureati, più o meno giovani e appartenenti persino a ceti sociali elevati. “I programmi scolastici di questi anni risultano completamente diversi da quelli dei nostri tempi, le terminologie usate sono del tutto differenti e noi così non ci riconosciamo più con ciò che viene insegnato ai nostri figli. Quindi non siamo in grado di aiutarli a risolvere problemi di matematica o gli esercizi di grammatica” hanno spiegato rispondendo alle domande del sondaggio. Dalle risposte fornite emerge che un genitore su cinque rimane sempre sorpreso davanti alle difficoltà dei compiti assegnati ai figli e che nove su dieci si mostrano dispiaciuti di tale incapacità di aiutarli perchè sono convinti che i consigli di mamma e papà possano contribuire a ottenere risultati scolastici migliori. E in Italia cosa accade? I nostri genitori sono in grado di aiutare i figli nei compiti oppure si trovano ad affrontare le medesime condizioni di quelli inglesi? Da noi non sono state fatte statistiche specifiche su questo tema, ma basta domandare a un insegnante o a un padre o a una madre per scoprirlo. “Anche i genitori italiani non sanno fare i compiti, anzi non sanno nemmeno da che parte cominciare”, rivela la scrittrice Paola Mastrocola, professoressa di Lettere in un liceo scientifico di Torino, che ha trattato pure questo argomento nel suo ironico saggio La scuola raccontata al mio cane, edito da Guanda e diventato un vero best seller. “Il problema è che non soltanto sono cambiati i programmi ma, il che è peggio, si è modificato completamente il lessico, cioè il modo di denominare, per esempio, gli elementi base della grammatica e della matematica, e questo fa nascere una grande confusione nella testa dei genitori. Un esempio? Se un ragazzo torna a casa e chiede: “Mamma, mi aiuti a trovare l’espansione dell’oggetto?”, è molto probabile che sua madre non sappia che il figlio vuole cercare semplicemente il predicato verbale o il complemento oggetto di una frase, che adesso a scuola si chiamano così”. E’ la terminologia, quindi, a essere cambiata e ormai consiste non solo di parole ma anche di segni: il vecchio, caro riassunto ora si chiama analisi narratologica, l’analisi logica si definisce analisi simbolica ed è fatta segnando con quadretti e cerchietti i verbi, i soggetti e gli aggettivi di un testo, mentre la matematica può essere del certo o del probabile, ovvero, traducendo, riguardare affermazioni del tipo vero o falso oppure affermazioni di tipo statistico.
Chi ha avuto la bella pensata di rendere la vita impossibile ai genitori abituati a un linguaggio più facile e comprensivo? “Non dipende dal ministero dell’Istruzione, il cui PUNTI compito è soltanto quello d’indicare i programmi scolastici” sostiene la professoressa Mastrocola. “E’ tutta colpa dei pedagogisti e dei linguisti che, negli ultimi trent’anni, hanno ritenuto di dovere svecchiare il linguaggio puntando su termini tecnici con l’idea di renderlo più colto, senza accorgersi che così hanno fatto perdere la poesia e il senso della bellezza a molte materie, l’italiano in particolare. E, da un po’ di tempo, pure i libri di testo si sono adeguati alla nuova terminologia, gettando nello sconforto i genitori che non sono più in grado di seguire i figli quando svolgono i compiti a casa e vi rinunciano, anche per evitare di essere tacciati d’ignoranza dai loro bambini”. D’altra parte abbiamo chiesto al professor Paolo Crepet, psichiatra esperto di problemi giovanili. “Aiutarli a fare i compiti li danneggia molto perchè li rende insicuri”, afferma. “Fin dalle elementari, consiglio di abituare i bambini a farli da soli e a prepararsi alle interrogazioni senza avere accanto qualcuno con cui ripetere gli argomenti, magari un adulto che suggerisca pure loro come risolvere gli esercizi o che cosa scrivere in un tema” Gli chiediamo se si può fare un’eccezione nel caso che siano molto impegnativi: “Meglio evitarlo. Lasciate che si arrangino da soli. Anzi, se il ragazzo è alle prese con un compito difficile raccomando di lasciarlo andare a scuola correndo il rischio di prendere un brutto voto. Quell’insufficienza lo aiuterà a crescere molto più di un bell’otto strappato senza fatica grazie agli “aiutini” di mamma e papà, ammesso che sappiano darglieli”.
© Dipiù. 2006

Non ho paura del mare perché amo la sua forza e il suo mistero

Regata in solitario intorno al mondo

È stata la prima velista-record alla regata in solitario intorno al mondo, senza scalo. Ora Isabelle Autissier racconta le sue sfide.

Io un’eroina? Ma no, sono normalissima: vado a fare la spesa, cucino… Ho soltando avuto una grande fortuna: sapere fin da bambina cosa avrei fatto nella vita ed essere riuscita a realizzare il mio sogno. Non so spiegare dove è nata la mia passione per il mare e la vela. Ricordo soltanto che quando andavo in barca con i miei genitori in Bretagna, mi piacevano i profumi, i colori, non avere terra intorno, il contatto diretto con la natura e il profondo senso di libertà. Così a 31 anni ho costruito la prima barca a vela per vivere navigando. Ma non potevo certo immaginare che avrei vissuto quello che mi è successo: il giro del mondo in solitario, le regate vinte, i naufragi, la morte a un passo. Ho deciso di regatare soltanto dopo la vittoria alla Minitransat (1987). Mi è piaciuto. E nel 1991, sono stata la prima donna velista a portare a termine un giro al mondo in 139 giorni e 4 ore nel corso della Boc Challenge, la regata intorno al mondo senza scalo.
Certo quando si è in gara le emozioni sono diverse da quando vai per mare per diletto. In competizione devi reggere la sfida con il tempo e con te stessa. E tenere testa agli altri. Tutto è finalizzato alla vittoria: la concentrazione è massima, studi la tattica ogni istante tenendo d’occhio il vento e il mare. C’è molta tensione ed eccitazione. Oggi non è più il mio “lavoro”, partecipo solo a regate minori. So che la mia vita non è comune, ma per me è normale alzarmi, guardare il mare, controllare la barca, capire il vento, salutare un delfino. Certo, talvolta è pericolosa. Ma io il mare lo conosco e non lo combatto. Rispetto sempre la sua forza e il suo potere. Immenso. Sempre. Questo rende interessante tutta la mia esistenza. Anche quando sono in mezzo all’oceano, e tutto è più difficile.
Qui ho scoperto che so fare più cose di quante immaginassi. Perché? Perché devo. Sto male? Ho il ciclo mestruale? Navigo fino a quando resisto e poi uso tutta la strumentazione elettronica che ho per stare in sicurezza. Ho messo a punto “il mio sonno” con un medico: dormo 20 minuti ogni mezz’ora. La solitudine? È la mia vita. Non mi sento sola, parlo con le onde, la mia barca, le nuvole. Certo via e-mail “parlo” con gli amici. Ma loro che possono fare se io sono giù? È raro comunque che io sveli quello che provo... Le mie emozioni le conosco, non mi spaventano. La più forte? L’angoscia e la calma insieme quando ho disalberato nell’Oceano Indiano durante la Around Alone del 1999. Ho lanciato l’Sos e ho aspettato. Perché si è vivi fino a quando non si è morti. Poi mi ha salvato Giovanni Soldini. E abbiamo brindato!
©Testo adattato da Geo, settembre 2007

Oggi mentire è una virtù

Oggi mentire è una virtù
Siamo bugiardi. Mentiamo per dare di noi l’immagine migliore, per apparire affascinanti, competenti, informati. Mentiamo a volte senza rendercene conto perché fondamentale è l’accettazione sociale: vince su tutto, anche sulla verità. Mentiamo per convenzione. Bastano dieci minuti di conversazione per infilarci quasi tre bugie. Esagerazioni? No. Lo dimostra la ricerca dell’Università del Massachussetts, svolta dallo psicologo Robert S. Feldman su un campione di 242 persone e durata quattro anni che sfata anche la leggenda che vede le donne più bugiarde.
Dallo studio americano arriva un’altra imbarazzante scoperta: i più menzogneri sembrano essere i più simpatici e intelligenti, quelli che vengono invitati, ascoltati, ricercati da amici e colleghi (in altre parole, ci si fa strada sparandole grosse).
“Raccontare falsità è diventata un’abitudine che fa parte della vita di tutti i giorni. Questa sorta di legittimazione della menzogna ha stupito anche me”, commenta lo stesso Feldman. Se è così, la bugia perde il suo significato negativo e diventa la scorciatoia socialmente accettata per avere successo nei rapporti con il prossimo. E allora come la mettiamo con la verità, la trasparenza? Che fine fa quel sano impulso di sembrare ciò che si è senza falsi abbellimenti e mistificazioni? Viene da pensare che la sincerità non rappresenti più un bene assoluto. È tempo di mentire o di dichiarare chiaro e forte il valore dell’autenticità?
Maria Barretini, insegnante di Filosofia della comunicazione ed Estetica all’Università di Milano dice: “Il diritto alla verità non è a 360 gradi, va considerato a seconda delle situazioni in cui ci si trova e delle relazioni nelle quali siamo coinvolti. Esiste anche il diritto al segreto, l’esigenza di mantenere nel chiuso della propria coscienza o della famiglia qualcosa di sé. È un principio che voglio ribadire proprio in risposta a chi predica una trasparenza totale che va contro la privacy, il rispetto dell’altro, la difesa dell’intimità. Basti pensare ai vari reality-show, dove imperversa l’esibizione di sé, che di certo non rappresenta un aspetto positivo del nostro tempo.Tutta la verità e nient’altro che la verità va bene nelle sale dei tribunali ma trasportare una formula processuale in un principio etico-morale da applicare nella vita quotidiana è impensabile. Si tratta di un estremismo pericoloso, perché toglie lo spazio ai chiaroscuri, al non-detto, a quell’ambiguità indispensabile del vivere sociale. I moralisti contemporanei che condannano ciecamente qualsiasi cosa si discosti dal vero, rischiano, in realtà di creare un assolutismo spietato”.
“Forse è ora di recuperare una sorta di educazione delle relazioni. Vale la pena, oggi più che mai, di ristabilire la priorità di ciò che conta davvero: l’attenzione, la sensibilità, il garbo verso l’altro. Il che significa tenere conto dello stato d’animo del momento, delle particolari circostanze, al di là dei diktat dei paladini del Vero. Ci sono bugie che non danneggiano nessuno, che non nascondono né calunnie né spietati opportunismi e neanche la vigliaccheria dei tanti Ponzio Pilato che seppure con il silenzio cavalcano le mistificazioni. Sono le bugie bianche, le bugie bonarie, spesso altruiste, che scegliamo di dire quando la verità fa troppo male. Oppure quelle che diciamo per compiacenza. Insomma, non dimentichiamo – né facciamo finta di dimenticare – che mentire appartiene a quel linguaggio sociale che tutti conosciamo e riconosciamo e che continua a intrecciarsi nei nostri rapporti con gli altri”. Gian Paolo Caprettini, docente di Semiotica dell’Università di Torino afferma: “Non ci sono giustificazioni per sostenere l’elogio della menzogna. L’autenticità rappresenta uno di quei valori che vale la pena mantenere se desideriamo che le nostre relazioni abbiano un senso. Detto questo è indubbio che oggi siamo sollecitati a mentire soprattutto per fermare chi cerca di intrufolarsi nella nostra esistenza e per arginare il voyeurismo dilagante. Ma qui si tratta di legittima difesa. Respingo qualsiasi giustificazione che porti a fare della bugia un’abitudine accettata. Dobbiamo opporre una strenua resistenza alla menzogna e ostentare un atteggiamento controtendenza. In altre parole, occorre essere tanto sinceri da sbilanciare le strategie degli intriganti che si muovono nella menzogna e nella calunnia. Lo ripeto con forza: non sottovalutiamo l’autenticità. Perché spesso il suo effetto è dirompente, contagia anche chi è abituato a tacere o a omettere, fa uscire allo scoperto chi ha tenuto dentro di sé angherie subite per colpa di falsità altrui, trascina altre voci e altre verità. Penso che la bugia sia uno scudo per proteggersi perché, in realtà, la debolezza è di chi non riesce a contraccambiare la sincerità delle parole e delle emozioni. E accade spesso, purtroppo. Perché, con il trascorrere del tempo, l’abitudine a fingere e mentire diventa una prigione da cui non sei in grado di uscire. Alla fine si rischia di diventare burocrati dei nostri stessi sentimenti. La felicità non passa certo da qui. C’è da sperare, quindi, che ci sia ancora chi sa riconoscere il valore della sincerità”.

La dieta mediterranea è come Venezia

La dieta mediterranea - patrimonio dell'umanità dell'Unesco
Come la Laguna di Venezia, i Trulli di Alberobello, il Machu Picchu, Notre-Dame di Parigi, la Statua della Libertà o la Grande Barriera Corallina, anche la dieta mediterranea è entrata a far parte del patrimonio dell’umanità dell’Unesco. La proposta è stata della Spagna e L’Unione Europea l’ha sostenuta in pieno. La decisione ha grande valore per l’Italia, nella cui cucina tradizionale si trovano ingredienti capaci di contrastare l’invecchiamento delle cellule e le malattie cardiovascolari e conseguentemente, di farci conquistare il primato europeo della longevità (con una media di 77,2 anni per gli uomini e 82,8 per le donne) e quello dei cittadini europei meno grassi. L’uomo italiano, con i suoi 168 centimetri, è più basso di due centimetri rispetto alla media europea, ma ha un peso di 68,70 chili, di molto inferiore allo standard comunitario (72,2).
Il 36% dei nostri ragazzi intorno ai 13 anni sono però obesi o in sovrappeso, contro il 20% di quelli europei: di qui l’importanza di riscoprire il sano modello alimentare mediterraneo.
È poi recente la notizia che alcuni scienziati di New York hanno scoperto un altro beneficio della dieta mediterranea che, in base ai loro studi, combatterebbe anche il morbo di Alzheimer.
Frutta, verdura, legumi, cereali, acidi grassi insaturi (olio d’oliva) e pesce riducono il rischio di ammalarsi e, una volta contratta la malattia, ne rallentano l’evoluzione.

La basilica di San Zeno

La basilica di San Zeno
La basilica di San Zeno è senza dubbio una delle più belle chiese romaniche esistenti in Italia. L'intenso cromatismo, dato dall'impiego della pietra di tufo usata sola o alternata a mattoni, si imprime subito nella memoria del visitatore. L'origine del primitivo nucleo di San Zeno è da ricondurre alla chiesa e al cenobio eretti nell'area cimiteriale romana e paleocristiana vicina alla Via Gallica, sorti sul luogo di sepoltura del Vescovo Zeno per conservarne la memoria e le reliquie. Il primitivo nucleo subì nel VI secolo dei rifacimenti. Qualche storico vede nel sacello di San Benedetto, tuttora esistente nel chiostro, una parte del primitivo complesso.

Con l'espandersi del culto del Santo, l'edificio cominciò a rivelarsi insufficiente. E così fra l'805 e l'806 la comune volontà del re franco Pipino, del Vescovo Ratoldo e dell'Arcidiacono Pacifico, fece realizzare una chiesa più vasta con annesso monastero. Nel 963, a seguito della distruzione operata dagli Ungari, l'imperatore Ottone I e il Vescovo Raterio fecero ricostruire la basilica. Questa è la chiesa che nel 983 vide l'investitura imperiale e la consacrazione episcopale di San Adalberto che esercitò la sua azione pastorale nell' Europa nordorientale. Si tratta di una costruzione a tre navate e tre absidi, larga come l'attuale, ma meno lunga e provvista di cripta.
              
Testo adattato da Consorzio di Promozione e Commercializzazione Turistica - Verona e Dintorni - www..veronaitaly.it

Addio sacchetto di plastica, arriva quello bio

Addio sacchetto di plastica, arriva quello bio

Le buste per la spesa saranno biodegradabili

Da riutilizzare per la raccolta differenziata

Dal primo gennaio, stop ai sacchetti di plastica. Il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo si è impuntata e alla fine ha vinto la sua battaglia contro chi chiedeva un ennesimo rinvio della legge. Così anche l’Italia si è adeguata alla direttiva dell’Unione Europea che vieta la produzione e la commercializzazione di sacchetti di plastica non biodegradabili.
Un anno di tempo. Il primo gennaio è entrato in vigore il divieto di produzione dei sacchetti di plastica, ma chi ha scorte in magazzino potrà venderle ancora fino al 30 aprile. Entro il 31 agosto gli shopper di plastica dovranno sparire dai magazzini della grande distribuzione, mentre chi vende al dettaglio e i negozi di vicinato avranno tempo fino al 31 dicembre per adeguarsi.
Una scelta irrinunciabile per l’ambiente: basti pensare che, secondo Legambiente, in Italia ogni anno si consumano più di 20 miliardi di sacchetti di plastica. Un quantitativo che potrebbe ricoprire un territorio pari a quello della Valle d’Aosta.
Con il loro utilizzo, poi, ogni famiglia media italiana produce ogni anno più di 10 chili di CO2 (anidride carbonica), responsabile dell’effetto serra e dei cambiamenti climatici. E non bisogna dimenticare che queste buste impiegano fino a 200 anni per decomporsi: tant’è che nell’oceano Pacifico, al largo delle coste californiane, vaga ormai da anni una specie di «isola di plastica» grande due volte la superficie del Texas.
Come sostituirli. I commercianti proporranno sacchetti in carta o in plastica biodegradabile, che potranno essere usati anche per la raccolta differenziata della frazione organica dei rifiuti.
Ma le vere alternative ecologiche sono il loro riutilizzo e l’abitudine a portare con sé un contenitore di tela o di fibra sintetica. Oppure scegliere cesti in vimini, molto usati per esempio in Germania. Sempre secondo Legambiente, anche il sacchetto di plastica potrebbe essere una buona scelta dal punto di vista ambientale, purché lo si riutilizzi: dal ventesimo utilizzo in poi, l’impatto ambientale è inferiore a quello del sacchetto di carta.
La sfida per l’anno appena incominciato è quella dunque di sensibilizzare i consumatori.
Con questo obbiettivo, molte associazioni di commercianti si sono alleate con i Comuni.
L’Associazione Comuni Virtuosi ha lanciato la campagna «Porta la Sporta», cui ha aderito per esempio il comune di Firenze in collaborazione con Confesercenti. Saranno distribuiti sacchetti con il marchio della campagna, riutilizzabili e personalizzabili dai commercianti che ne faranno richiesta.
Daniela FABBRI. Oggi (1 gennaio 2011), p. 110-111

Onorevole, si connetta - PAU Cataluña 2011

Wifi libero
Dura ormai da 1.888 giorni una delle più incredibili anomalie italiane in materia di politica dell’innovazione. Un’anomalia che ha contribuito in modo determinante ad abbandonare il nostro Paese sul fondo di ogni classifica internazionale sulla diffusione di Internet.
Si tratta del cosiddetto «decreto Pisanu» (tecnicamente: decreto legge n. 144 del 27 luglio 2005), dal nome dell’allora ministro degli Interni che, all’indomani degli attentati di Al Qaeda a Londra e Madrid, preoccupato che un terrorista potesse sedersi in un bar, aprire il suo pc e, sfruttando la connessione WiFi che il gestore del bar gli ha messo a disposizione, progettasse un attentato, decise d’imporre a tutti gli esercizi pubblici di richiedere una licenza speciale al questore per l’istallazione di un punto di connessione WiFi, procedendo anche all’identificazione — con esibizione del documento d’identità — di ogni cliente, nonché alla registrazione e conservazione dei dati relativi alle attività di navigazione della clientela.
Appena quattro giorni dopo il decreto venne ratificato dal Parlamento e da allora è legge dello Stato (n. 155 del 31 luglio del 2005). E, sebbene abbia prodotto nel nostro Paese più danni che vantaggi, le disposizioni ottenute al suo articolo 7, originariamente destinate a rimanere efficaci sino al 31 dicembre 2007, sono state prorogate di anno in anno, attraverso una sequenza di tre «Milleproroghe», ovvero il perverso strumento normativo attraverso il quale, prima che l’anno finisca, il governo rinnova tutti i provvedimenti di legge dei quali non ha avuto tempo o voglia di occuparsi.
Nessuno in Parlamento si è mai interrogato circa la reale utilità — in termini di antiterrorismo — di imporre al gestore di un bar di identificare il suo cliente al quale «presta» un po’ di banda. Mai il ministero degli Interni o altri hanno riferito se, come e quando questa legge ha prevenuto un atto terroristico dal 2005 a oggi. In compenso è certo — e provato da diverse ricerche — che la norma (inesistente, ad esempio, negli Usa) ha tarpato le ali allo sviluppo della Rete senza fili in Italia.
Che cosa fare, dunque, per liberarci dal decreto Pisanu? Innanzitutto scongiurare il rischio che con il prossimo Milleproroghe, i cui lavori preparatori stanno per iniziare, il governo non confermi per la quarta volta l’obbligo per i gestori di richiedere una licenza al questore per l’installazione di un hot spot WiFi; e poi, esigere che l’esecutivo — in una sorte di tardivo pentimento operoso — utilizzi lo stesso decreto legge Milleproroghe per abrogare le disposizioni che impongono al gestore di un bar di trasformarsi in sheriff e identificare, con tanto di documento d’identità, i propri avventori.
C’è bisogno di rilanciare la diffusione Internet nel nostro Paese per colmare il ritardo rispetto al resto d’Europa. E questa appare, davvero, una ragione di straordinaria necessità ed urgenza: davvero, quindi, sarebbe giustificato il ricorso al decreto legge.
Testo adattato da Guido SCORZA. L’Espresso (8 ottobre 2010), p. 157

L'euro va salvato a ogni costo

L'euro va salvato a ogni costo
Molti vedono nella moneta unica la causa della crisi. Ma il suo abbandono porterebbe inflazione alle stelle, spesa pubblica fuori controllo, un’Europa meno forte Uscire dall’euro? Nelle tempeste della finanza internazionale degli ultimi tempi i nemici della moneta unica sono usciti allo scoperto con molta aggressività. Nell’euro viene individuata l’origine e la causa dei guai che affliggono i diciassette Paesi a esso affiliati, soprattutto quelli più deboli o gravati dal maggiore debito pubblico (tra questi ultimi l’Italia).
È vivace la polemica contro il direttorio a due Sarkozy-Merkel e in particolare contro la cancelliera tedesca, che pretenderebbe di fare dell’euro una riedizione del marco. Lo spread, il differenziale tra il rendimento dei titoli di Stato tedeschi e quelli dei titoli di Stato dei Paesi mediterranei, è un incubo quotidiano. L’euro, si dice, è una moneta che non ha la protezione di un Paese responsabile della sua gestione. Dunque una moneta fragile.
Da questo quadro allarmante emerge qualche paradosso difficile da spiegare. Alla nascita, 1 euro valeva quanto 1 dollaro e inizialmente è sceso sotto la parità. Ma da allora in poi è cresciuto impetuosamente, tanto che gli esportatori italiani protestavano contro la forza dell’euro che li danneggiava. Ancora negli ultimi giorni l’euro valeva oltre 1 dollaro e 30 centesimi, sorpassando largamente la moneta verde dotata di tutti i requisiti — uno Stato e una lunga tradizione alle spalle — che all’euro, secondo molti esperti, mancano.
Mi pare che l’ostilità all’euro si fondi essenzialmente sul fatto che i suoi meriti originari sono diventati difetti. Il cambio della lira nella moneta comune danneggiò i cittadini, che affrontarono indebiti rincari. In compenso i popoli dell’euro ebbero una garanzia contro l’inflazione, di molto ridotta.
Il rinsavimento dei governi, come l’italiano, famosi per la prodigalità con cui sperperavano il denaro pubblico non fu spontaneo, ma imposto. Prima dell’euro, le banche centrali nazionali potevano stampare moneta. Dopo, ha potuto farlo solo la Banca centrale europea, ora guidata da Mario Draghi: e l’ha fatto con avarizia. I governi che un tempo non erano mai a corto di soldi perché li attingevano dalla zecca, si sono trovati a secco. Se si tornasse alla lira, i soldi ci sarebbero e insieme con loro tornerebbe anche l’inflazione.
È consigliabile il ritorno alle abitudini del passato? Il dilemma è tutto qui. Poi ci sono le considerazioni di carattere tecnico, ossia la montagna di complicazioni cui si andrebbe incontro per fare marcia indietro. Una ricerca svizzera ha stabilito che l’implosione dell’euro costerebbe tra i 9.500 e gli 11.500 euro a testa. La soluzione dello sganciamento è insomma disseminata di ostacoli e di incognite. Personalmente ritengo che l’euro, con tutti i suoi difetti, sia stato una grande realizzazione e sia da salvare.
Testo adattato da Mario CERVI. Gente (6 dicembre 2011), p. 24

Lo spettacolo della morte

Marco Simoncelli
Esiste un problema, giornalisticamente parlando. Ci sono troppe notizie, un numero indefinibile di siti dove acquisirle e poco tempo da destinare loro. La foresta mediatica è affollata di storie assopite ma alcune vengono puntualmente ridestate. Il confine tra cronache e loro spettacolarizzazione è sempre sottile e alcune tipologie di notizie resistono bene al letargo, come il gossip e la scomparsa precoce di giovani celebrità. A distanza di un anno migliaia di persone che non si erano mai interessate di motociclismo piangono la perdita di Marco Simoncelli, un ragazzo simpatico, brillante, l’erede. Per i suoi funerali in diretta televisiva vennero istituiti servizi d’ordine ai caselli, distribuiti accreditamenti come in un GP, il tutto per controllare un fiume in piena di 60 mila persone. Anche altri personaggi sono molto seguiti: il Papa è sempre richiesto, ma quando c’era Wojtyla le sedi italiane delle agenzie stampa avevano maggiori occasioni di produrre materiale da distribuire. La Principessa Diana ebbe un seguito in vita che non teme rivali: bella, giovane, nobile e ribelle fu dalla stampa monitorata in aereo, rincorsa in mare, inseguita in auto fino la tragedia. Il suo funerale monopolizzò l’attenzione mondiale tanto da offuscare il pianeta.
Le tragedie fanno vendere: la concorrenza tra i media è spietata e gli sponsor pagano la visibilità, non le buone intenzioni. Per contendersi i clienti si studiano nuove forme di interazione tra le notizie ed un utente sempre più allenato ad un ruolo attivo. Le redazioni si popolano di figure cresciute tra video giochi e tecnologia, inebriate di azione e partecipazione ai fatti senza eccessivo sudore.
Giunge dal The New York Times un pacchetto multimediale di cronaca innovativo, intitolato Snow Fall The Avalanche at Tunnel Creek. Diviso in sei parti, grafici interattivi, video, immagini meteo dinamiche con commenti degli esperti. Un enorme servizio iniziatico, un tentativo, studiato a tavolino nei minimi dettagli, di preparare i lettori ai cambiamenti che li attendono. Partendo dalle dinamiche persuasive e suggestive che una notizia muove, il NYT sfrutta le potenzialità della cultura digitale e la flessibilità di una pagina web — nella quale si possono assemblare e gestire vari contenuti — per ottenere la cosiddetta realtà aumentata. Quasi un esperimento di psicologia, protagonisti esaminati come in laboratorio. Gli sfortunati interpreti della tragedia divengono attori, la trama è quella di una storia senza lieto fine. Filo conduttore l’empatia, antico stratagemma della narrazione basato sul rapporto emozionale di partecipazione che lega il cantore al suo pubblico. In questo servizio il pathos è ottenuto attraverso un processo meticoloso. Ti mostro le vittime fin da piccole: sono belle, inizi a distinguerle, ti piacciono, figure atletiche, vestono e mangiano come te. Ti immedesimi: ora tu sei loro, stai sciando, improvvisamente senti freddo, sei disperato, ti manca l’aria e gli occhi iniziano a gelarsi. L’empatia è mettersi nei panni dell’altro, non per pietà ma per misurare la nostra possibile reazione, un ancestrale confronto mirato alla sopravvivenza e i bravi redattori lo sanno. Ma cosa succede se in quei panni ci sono dei fuoriclasse, degli esperti che conoscono profondamente il nemico? Accade, per quanto crudele sia, che la storia diviene più avvincente.
Testo adattato da Vanda Biffani. Piazza Enciclopedia Magazine (9 gennaio 2013)

Emigrati e traditi - PAU Cataluña 2012

Emigrati e traditi - cervelli in fuga
Una storia destinata a ripetersi nel tempo. Quello della ricerca italiana è un percorso fatto di alti e bassi, di belle intuizioni e progetti falliti, di programmi ambiziosi crollati sotto il peso delle indecisioni della politica e di finanziamenti inadeguati. Lo racconta bene un libro recente di Marco Cattaneo, che ripercorre le biografie e gli studi di alcuni tra i più famosi scienziati italiani dall’Unità a oggi. Ne emerge un panorama simile a quello che anche ora abbiamo davanti agli occhi: grandi personalità con capacità innegabili, un buon sistema scolastico per formare scienziati competitivi, una debolezza cronica dei centri di ricerca spesso condizionata dalla scarsa lungimiranza del mondo politico e dalle politiche dei «baroni» del mondo accademico.
Ci sono stati eventi drammatici, come le leggi razziali di Mussolini del 1938, che hanno determinato un vero e proprio esodo di ricercatori, ma il risultato è sempre lo stesso: gli scienziati italiani fuggono all’estero.
Sono lontani i primi tempi dell’Unità, in cui la classe dirigente, per sostenere la sfida della ricerca e aprirsi al mondo, si impegnava nella formazione internazionale degli studenti più promettenti.
L’Italia riuscì allora a dotarsi di strumenti avanzati nel campo dell’astronomia, affidando la rinascita scientifica nazionale a Virginio Schiaparelli, l’uomo giusto al posto giusto, se si pensa che a chi gli offrì di diventare senatore rispose: «Se vuole che io faccia qualche cosa per il mio Paese, mi conceda di non allontanarmi dal mio telescopio. È costato alla nazione una grande somma e io so farlo fruttare per la scienza e per l’onore del nostro Paese».
Alcune scelte furono lungimiranti, come la creazione del Cnr e dell’Istituto superiore di sanità, nati come organi di indirizzo per le scelte della politica ma entrati subito in competizione con il mondo universitario e soprattutto indeboliti dalla scarsità di fondi che ha sempre impedito il decollo dei progetti più ambiziosi. Maggiore fortuna ebbe la scuola di fisica creata da Enrico Fermi a Roma negli anni Trenta. L’Istituto di via Panisperna portò all’Italia rilevanti riconoscimenti internazionali, ma nel giro di quindici anni l’intero gruppo di ricercatori si disperse tra Europa e Stati Uniti. Lo stesso avvenne due decenni più tardi con il progetto dell’elettrosincrotrone di Frascati, creato contemporaneamente al Cern di Ginevra. Ma, paradossalmente, mentre in Italia il programma apparentemente progrediva a fasi alterne, quello svizzero, grazie anche agli italiani, conobbe un’ascesa senza limiti, come testimonia anche il recente esperimento sui neutrini coordinato proprio da un italiano, Antonio Ereditato.
Lo stesso destino ha accomunato anche il trio di premi Nobel Salvador Luria, Renato Dulbecco e Rita Levi-Montalcini, tutti formati nella stessa università a Torino e tutti emigrati all’estero, dove hanno condotto, separatamente, le ricerche che li avrebbero portati al prestigioso riconoscimento. Non è una coincidenza. È piuttosto il grande limite di un Paese che, pur intravedendo l’importanza di un settore strategico e offrendo buone opportunità di formazione, alla fine non crede fino in fondo che ricerca e sviluppo economico siano un binomio e lascia che i cervelli migliori se ne vadano.
Testo adattato da Ignazio MARINO. L’Espresso (24 novembre 2011), p. 145

Professor robot

robotica educativa
Duecento ragazze sabato 26 novembre a Bruxelles per il Greenlight Day. Sono in collegamento con Fumane, in provincia di Verona, dove una quarantina di studentesse dell’Istituto Lorenzi scriveranno il programma per comandare cinque robottini che si muoveranno in Belgio simulando una missione su Marte. Il Greenlight Day fa da apripista alla Settimana Europea della Robotica, programmata dal 28 novembre al 4 dicembre: eventi, manifestazioni, mostre, laboratori.
Protagonisti i robot. Per l’Italia è la Scuola di robotica di Genova a fare da coordinatore. Oltre cento eventi, soprattutto nelle scuole, con gruppi di ragazzi che imparano a destreggiarsi con mattoncini e sensori e costruiscono piccoli androidi che rispondono ai loro comandi.
La Settimana Europea è il punto di arrivo di decine di esperienze didattiche innovative che usano robotica e intelligenza artificiale per cambiare l’apprendimento di molte materie: dalla matematica alle scienze, dalla chimica alla geometria, dalla fisica alla meccanica, all’inglese.
L’Unione Europea ci mette il suo prestigioso cappello perché l’obiettivo è diffondere le nuove esperienze, in ogni grado di istruzione. Anche tra i bambini delle elementari. Come fanno, ad esempio, i laboratori Esplora dell’Itis Paleocapa di Bergamo, animati da Tiziano Tuccella, studente universitario che propone a un gruppo di ragazzini di scoprire le differenze tra una macchinina telecomandata e un robot, spiega come si applicano i sensori e si programma il proprio piccolo androide. E ci riesce, a sentire Leonardo, otto anni, che intuisce: «Il sensore è come un occhio, o la pelle. Ma ci vuole un cervello per comandarlo». E il cervello è il pc su cui anche i più piccoli imparano a dare semplici comandi al robottino che hanno prima assemblato.
Strumento base è il mattoncino programmabile Mindstorm, nato dall’accordo tra il MIT di Boston e la Lego: scegli i mattoncini, li metti insieme come un qualsiasi Lego, poi aggiungi i sensori che preferisci e infine programmi col pc una lista di movimenti da far compiere al tuo androide. «La famiglia dei prodotti Mindstorm consente di progettare e creare robot che interagiscono tra loro e con l’ambiente», spiega Maurizio Garbati, responsabile di robotica della scuola media Dante Carducci di Piacenza e autore di La robotica educativa. Il kit di robotica è costituito da mattoncini intelligenti, sensori e attuatori che permettono al robot di interagire con l’ambiente inviando segnali al microprocessore. «Fare robotica a scuola significa scoprire il fascino di programmare una macchina», afferma Garbati: «I ragazzi si meravigliano di ciò che può fare un insieme di mattoncini dotato di sensori e attuatori: in realtà non è il robot a farlo, ma loro a programmarlo».
Avvicinare le ragazze alle scienze e alle tecnologie è, invece, la missione del progetto «Roberta», promosso dall’Istituto tedesco Fraunhofer. Fiorella Operto, cofondatrice della Scuola di robotica di Genova, referente italiana di questo progetto, afferma: «La robotica, proprio alle medie, nel momento in cui sembra che le ragazze perdano interesse per le materie scientifiche, può mantenere viva la curiosità scientifica». E che non sia solo un gioco lo dimostrano i risultati: «Ottimi livelli e successo scolastico per chi sceglie di continuare studi scientifici e tecnologici».
Testo adattato da Daniela CONDORELLI. L’Espresso (24 novembre 2011), p. 14

Evasione e compensazione occulta

Evasione fiscale
Ci sono evasori fiscali in tutti i paesi perché il dispiacere di pagar tasse è profondamente umano. Ma si dice che gli italiani siano più inclini di altri popoli a questo vizietto. Perché?
Devo rievocare antichi ricordi, la figura di un vecchio padre cappuccino di grande umanità, dottrina e bontà, a cui ero molto affezionato. Ora questo amabile vegliardo, nel comunicare a me e ad altri giovani i principi dell’etica, ci aveva spiegato che contrabbando ed evasione fiscale, se sono peccati, lo sono in modo veniale perché non contravvengono a una legge divina, bensì solo a una legge dello Stato.
Avrebbe dovuto ricordare sia la raccomandazione di Gesù di dare a Cesare quel che è di Cesare, sia quella di San Paolo ai Romani nello stesso senso. Ma forse sapeva che, nei secoli passati, alcuni teologi avevano sostenuto che le leggi fiscali non obbligano in coscienza, ma soltanto in forza della sanzione. Però, nel riportare oggi questa opinione, Luigi Lorenzetti, direttore della «Rivista di Teologia Morale» commenta: «Si fa torto, però, a quei teologi se si ignora il contesto sociale ed economico che li ha indotti a inventare tale teoria. L’organizzazione della società non era per niente democratica; il sistema fiscale ingiusto, i tributi abusivi opprimevano i poveri».
Infatti il mio cappuccino citava un altro caso, quello della «compensazione occulta». In parole semplici, se un lavoratore ritiene di essere ingiustamente sottopagato, non fa peccato se sottrae tacitamente quel di più a cui avrebbe diritto. Ma solo se la sua paga è evidentemente iniqua e gli si nega la possibilità di appellarsi alle leggi sindacali. Però su un argomento del genere lo stesso san Tommaso aveva certi dubbi. Da un lato «[in una tale situazione] uno può soddisfare il suo bisogno con l’appropriazione, sia aperta che occulta, della roba altrui. E non per questo commette furto o rapina».
Dall’altro «chi prende la propria roba a chi la detiene ingiustamente, pecca non già perché fa un torto
al detentore… ma pecca contro la giustizia legale non rispettando le regole del diritto». E sulle regole
del diritto san Tommaso aveva idee chiare e severe, e non avrebbe concordato con Berlusconi quando
diceva che i cittadini erano da comprendere se evadevano un fisco troppo avido.
Tuttavia la sua concezione del diritto di proprietà era cattolicamente più «sociale», in quanto la proprietà era da considerarsi giusta «quanto al possesso» ma non «quanto all’uso»: se io ho un chilo di pane acquistato onestamente ho diritto di esserne riconosciuto proprietario, ma se accanto a me c’è un barbone che muore di fame dovrei dargliene la metà. Fino a che punto l’evasione è compensazione occulta?
Il cappuccino di cui dicevo prima non scendeva in sottigliezze casuistiche, e si limitava a dire che evasione e contrabbando attentano «soltanto» contro le leggi dello Stato. E in questa posizione mi pare riflettesse una educazione che aveva ricevuto da giovane, per cui lo Stato era tanto cattivo che non bisognava dargli retta. Si vede che qualcosa di queste antiche idee è rimasto nel Dna del nostro popolo.
Testo adattato da Umberto Eco. L’Espresso (6 settembre 2012), p. 150

Dr. Jekyll e Mr. Ipad

Jekyll & Hyde di Mattotti e Kramsky
Nel 2002 il disegnatore Lorenzo Mattotti e lo sceneggiatore Jerry Kramsky pubblicano l’adattamento di Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde, di Robert Louis Stevenson. E subito i lettori restano abbagliati da uno dei capolavori del fumetto, che dimostra appieno le potenzialità espressive del comic.
Il Jekyll & Hyde di Mattotti e Kramsky, anche grazie ai «tradimenti» apportati al testo originario — il cambio dell’ambientazione, dalla Londra Vittoriana dell’Ottocento alla Berlino degli anni’30 —, diventa una attraente analisi del male assoluto e delle sue manifestazioni nell’animo umano. Un Mattotti in stato di grazia, poi, fonde nell’iconografia della storia ogni genere di suggestione grafica e pittorica, da Otto Dix a Francis Bacon, da George Grosz alla rivisitazione completa dell’espressionismo, in un turbinio di suggestioni cromatiche che rendono perfettamente l’eterno conflitto presente all’interno di ognuno.
Oggi, a dieci anni di distanza, dopo aver conquistato riconoscimenti internazionali, le sessantaquattro tavole di Jekyll & Hyde vivono una nuova incarnazione su iPad: tra ipertesti, approfondimenti, rimandi letterari e musicali che aggiungono nuove dimensioni alla lettura, offrendo (parallelamente all’approccio tradizionale) l’inestimabile possibilità di un viaggio all’interno della creazione dell’opera, condotti per mano dall’autore. Una possibilità che si avvicina a chi è abituato più a smanettare su ogni genere di gadget elettronico che non a sfogliare un volume cartaceo, ma attrae anche i lettori tradizionali.
Sulle pagine di Jekyll & Hyde si possono oggi cliccare le vignette di ogni tavola per accedere a un altro mondo. Di volta in volta si possono trovare i frammenti di una lunga intervista in cui Mattotti spiega i riferimenti pittorici del lavoro, mostra bozzetti preparatori e studi sui personaggi, ci porta nella sua bottega per una comprensione completa della genesi del volume. Oppure si può leggere il testo originale di Stevenson (nella traduzione di Fruttero e Lucentini). O vedere il volume sottolineato
da Kramsky che è alla base dell’adattamento. Il tragico destino di Jekyll e Hyde è arricchito, tra l’altro, dalla possibilità di visionare un filmato di un’ora. Qui, l’intero fumetto è recitato e musicato in una performance andata in scena solo un paio di volte, dove Paolo Mattotti, fratello del disegnatore, recita le battute del protagonista, mentre scorre un montaggio delle immagini del testo, sostenute dalle musiche e da effetti sonori di Giovanni Bedetti e dello stesso Paolo Mattotti.
Fin dall’inizio della sua carriera, Lorenzo Mattotti è uno dei più grandi innovatori del fumetto. È un ventiduenne studente dell’architettura quando, nel 1976, pubblica i primi disegni, ma da allora la sua attività si espande a dismisura: alla produzione di graphic novel, sempre in equilibrio tra pittura e avventura, alterna un’intensa attività di illustratore, iniziata su Vanity Fair ed estesa alla cartellonistica.Si spinge poi nei territori del cinema e dell’animazione.
Viene da chiedersi se Mattotti abbia già pensato ad altre letture elettroniche dei suoi fumetti. «Anche se amo il silenzio e la fissità del fumetto, altre storie mie ci si presterebbero. E magari accompagnare tutto con le musiche che ascolto mentre disegno queste storie».
Testo adattato da Oscar Cosulich. L’Espresso (24 novembre 2011), p. 131

Bilinguismo, un'arma in più "Il cervello è più reattivo"

Bilinguismo
[…] Marian e Kraus, insieme ad altri colleghi, si sono chieste se l'esperienza di parlare più lingue potesse portare a modificazioni nella codifica del suono in aree evolutivamente antiche del cervello, come il tronco cerebrale. E la risposta è stata positiva, […].
In pratica, nei bilingui cambia il modo in cui il cervello risponde ai suoni. "Si fanno puzzle e parole crociate per mantenere la mente lucida", ha spiegato la dottoressa Marian, del laboratorio di bilinguismo e psicolinguistica a scienza della comunicazione della Northwestern University. "Ma i vantaggi che abbiamo osservato in chi parla due lingue vengono in automatico, semplicemente per il fatto di conoscere e usare due idiomi", sottolinea la studiosa. Benefici particolarmente estesi e rilevanti, che riguardano anche la capacità di attenzione, aggiunge Nina Kraus.
Lo studio è stato condotto su adolescenti bilingui, che parlavano inglese e spagnolo, e monolingui, solo inglese, sottoposti ad una serie di test in cui ascoltavano una sillaba, "da", in condizioni diverse. In una situazione di ascolto non disturbata, le risposte neurali a suoni complessi sono risultate simili per entrambi i gruppi. Ma in presenza di rumori di fondo, il cervello dei bilingui è riuscito a distinguere caratteristiche del suono "sottili", come la frequenza fondamentale, molto meglio rispetto ai monolingui. Parallelamente, i risultati sono stati migliori anche in compiti che richiedevano attenzione prolungata.
"Nei bilingui l'attenzione si affina grazie all'esperienza e il loro sistema uditivo diventa più efficiente nell'elaborazione automatica dei suoni", commenta Andrea Marini, docente di Psicologia del linguaggio e della comunicazione all'Università di Udine "e la cosa interessante è che tutto avviene in
modo implicito, senza alcuno sforzo". Una palestra preziosa per il cervello, che rende migliori i risultati anche in compiti che richiedono attenzione sostenuta, non solo uditivi ma anche di tipo visivo.
In sostanza, chi è esposto a più di una lingua si trova fin da subito in una situazione di maggiore difficoltà. "Deve riconoscere fin da piccolo suoni e frequenze diverse, fa più fatica ma affina diverse qualità rispetto a chi non viene messo di fronte a questa prova, come i monolingui", spiega ancora il professore. Con vantaggi importanti anche rispetto al decadimento delle facoltà cognitive, "come ha dimostrato uno studio canadese del 2010", ricorda Marini, in cui si evidenziava che il bilinguismo quotidiano, non saltuario, può ritardare la comparsa dei sintomi dell'Alzheimer anche di cinque anni nelle persone anziane". Risultato non raggiunto da alcun farmaco esistente.

di Alessia Manfredi , La Repubblica, 02/05/2012
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